Prima di partire con la nostra Top 5, c’è una cosa da dire: da otto anni aprile è il mese del Record Store Day, un evento che supporta e promuove i negozi indipendenti di musica con concerti e pubblicazioni in edizione limitata. Lo scorso 18 aprile artisti e appassionati di tutto il mondo si sono ritrovati dai loro spacciatori di musica preferiti per celebrare spazi e persone ad alto rischio di estinzione. In questo senso, la ripresa delle vendite del vinile, che nel 2014 ha raggiunto livelli pari a quelli di metà anni Novanta, è sicuramente un segnale incoraggiante per la sopravvivenza di questa nicchia agguerrita e fedele. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che il successo del vinile risolva il problema dei rivenditori indipendenti, visto che ormai la gran parte del pubblico si affida a canali di distribuzione alternativi.
Ma qui si rischia di andare fuori tema: è tempo di tornare ai cinque dischi più apprezzati e chiacchierati di questo aprile.

Lower Dens – Escape from Evil

Qualche anno fa il successo del film Drive e della sua colonna sonora aveva riportato in auge il cosiddetto “dream-pop”, un genere in cui sonorità anni Ottanta si combinano con arrangiamenti  raffinati ed eteree voci femminili alla Cocteau Twins. Quest’ultimo disco dei Lower Dens, gruppo di Baltimora capeggiato dalla talentuosa Jane Hunter, sarebbe stato perfetto per musicare le gesta del pilota misterioso interpretato da Ryan Gosling. Ascoltando Ondine, infatti, pezzo in cui la voce androgina della Hunter esalta l’andamento da slow-motion del sintetizzatore, non possono non venire in mente le sue scorribande losangeline. L’estetica anni Ottanta è presente in tutto il disco: nel singolo To Die in LA, il gruppo ne offre il lato più danzereccio mostrando il conflitto tra il tono decadente e sofferto della cantante, che sembra la sorella gemella di quella dei concittadini Beach House, e la base spigliata in perfetto stile dance music. Ma è soprattutto in Quo Vadis che la somiglianza tra questi due gruppi diviene evidente (anche se i Lower Dens sono senza dubbio più solari e preparati come musicisti). Il disco termina con Societé Anonyme, forse il pezzo che meglio riassume questo lavoro: sensibilità pop alla Nico, chitarrine new wave, andamento uptempo, effetti ambient che dilatano il suono.
Insomma, Escape from Evil è un disco piacevole che vi farà apprezzare lo zucchero filato al Luna Park come quando eravate bambini.

Blur – The Magic Whip

Quando lo scorso febbraio i resuscitati Blur hanno annunciato urbi et orbi che avrebbero pubblicato un nuovo lavoro a distanza di dodici anni da Think Tank, molti avranno pensato a come abbia fatto l’infaticabile Damon Albarn a districarsi tra il tour del suo primo disco solista, la scrittura della sua prima opera teatrale e le registrazione della nuova creatura di uno dei gruppi più amati dai britannici (e non solo). Successivamente abbiamo scoperto che in realtà è stato l’estroso chitarrista Graham Coxon ad assumersi l’onere di riordinare le caotiche idee che i quattro avevano abbozzato durante una sessione di cinque giorni a Hong Kong nel 2013. E dobbiamo ringraziarlo. Infatti, nonostante la prima traccia Lonesome Street ci riporti indietro di vent’anni con la tipica schitarrata e il tono scanzonato di Albarn, in questo The Magic Whip c’è molto di più di una classica operazione nostalgia da parte di quattro rockstar annoiate: in Ice Cream Man sembra di essere entrati in una sala giochi giapponese con un Albarn che disegna metaforicamente le proprie preoccupazioni politiche; Broadcast sarà invece una delle canzoni più apprezzate dal pubblico nei prossimi megaconcerti estivi, mentre l’inquietante e militaresca marcia There Are Too Many of Us trasmette perfettamente il senso di alienazione della megalopoli cinese che ha ispirato i suoni e i testi del disco. Ma sono soprattutto la lenta e delicata My Terracotta Heart, incentrata sugli alti e bassi del rapporto fraterno tra Albarn e Coxon, e Pyongyang, le cui sonorità fanno pensare al Bowie di Ashes to Ashes, a dimostrare che questo disco non ha niente a che vedere con un’operazione nostalgia. Anzi, certifica che i Blur si erano sciolti prematuramente rispetto a quello che avrebbero potuto ancora offrire.

Young Fathers – White Men Are Black Men Too

Come suggerisce il titolo del disco, agli Young Fathers le classificazioni, nella musica come nella società, non piacciono molto. Questo trio di Edimburgo, i cui membri condividono una formazione multiculturale, è arrivato inaspettatamente alla ribalta l’anno scorso, quando il loro album precedente vinse il Mercury Prize. In quest’ultimo lavoro, gli Young Fathers propongono una musica ibrida che mescola percussioni, sintetizzatori robusti, pianoforte e xilofono con un particolare modo di interpretare il rap che a tratti ricorda l’eccentricità degli Why?. Cosa particolarmente evidente nella traccia d’apertura, Still Running, con la sua contrapposizione tra suoni distorti e melodia da carillon, che la rende uno dei passaggi migliori dell’intero disco. In Rain Chain le atmosfere black e lo spoken word ci riportano invece nella Bristol degli anni Novanta di Tricky, mentre il singolo Shame è l’esempio più riuscito dell’intreccio tra sperimentalismo rumoristico e anima pop alla Tv on the Radio che caratterizza questo gruppo.
Al netto della monotonia delle basi e delle atmosfere eccessivamente compresse, con White Men Are Black Men Too gli Young Fathers confermano di essere un gruppo da tenere d’occhio.

Calexico – Edge of the Sun

Da quasi vent’anni la musica dei Calexico ci trasporta in una terra di frontiera dove la tradizione cantautorale americana converge con l’anima più latineggiante del continente. A distanza di tre anni da Algiers, disco dall’approccio più immediato e piacione rispetto ai predecessori, il duo ritorna con questo Edge of the Sun che ripropone le atmosfere polverose da saloon per cui sono diventati famosi: chitarre in salsa messicana, fisarmoniche, Morricone e archi sono solo alcuni degli elementi che i Calexico amalgamano con naturalezza. In alcuni passaggi, come nella bellissima Cumbia de Donde o nella strumentale Coyocoan, sembra di assistere a una fiesta messicana con troppa tequila, mentre in Bullets and Rocks o nella dylaniana When the Angels Played assaggiamo il gusto del deserto, l’immancabile scenario che impregna ogni pubblicazione di questo gruppo. Ma è sicuramente con World Undone che i Calexico danno il meglio di sé: un pezzo costruito su un bellissimo e ostinato giro di chitarra, che sembra condurci da una terra arida piena di miraggi verso un’oasi rigogliosa.
Se è vero che difficilmente i Calexico potranno raggiungere di nuovo gli apici di The Black Light, questo disco dimostra che il gruppo non ha ancora smarrito il gusto di oltrepassare i confini.

Soft Moon – Deeper

«Il futuro è l’apocalisse»: con queste parole Luis Vasquez, il poliedrico musicista che si cela dietro il nome di Soft Moon, riassume il suo “ottimismo” nei confronti dell’avvenire e descrive l’atmosfera post-atomica di questo Deeper, disco che scava a fondo nelle viscere dell’autore fino a portare alla luce il senso di claustrofobia della sua prigione corporea. Scritto e concepito durante l’anno trascorso da Vasquez a Venezia – che non sembra aver rasserenato il suo animo –, Deeper ci conduce in una landa desolata in cui le macchine sembrano aver preso il definitivo soppravvento su tutto il resto: in Wrong, una voce robotica nega qualsiasi possibilità di salvezza mentre la drum machine spara proiettili al cervello dell’ascoltatore; l’aggressività di Black ricorda i primi Nine Inch Nails, anche se a differenza di questi ultimi i suoni sono ancora più artificiali e robotici, mentre il piglio nevrotico del singolo Far fa pensare soprattutto a Bauhaus e Killing Joke.
Deeper è un disco brutale e poco rassicurante, che a tratti sembra la trasposizione in musica dell’immaginario distopico di Aldous Huxley, ma che sarà molto apprezzato dagli animali notturni.