Un antico proverbio dice che se marzo non marzeggia, aprile non verdeggia. In altre parole, la schizofrenia meteorologica di questo mese è di buon auspicio per l’arrivo della bella stagione. E rispecchia perfettamente quanto avvenuto nella musica: un inizio sonnecchiante, una fine molto vivace. Questa volta, tra gli esclusi della top 5 ci sono niente meno che i Godspeed You! Black Emperor, tra poco in Italia per due date imperdibili.

Modest Mouse – Strangers to Ourselves

I Modest Mouse sono uno di quei gruppi a cui è riuscita l’impresa di scalare le classifiche rimanendo fedeli al proprio particolare modo di fare musica. Figli della provincia americana del nord ovest, apparentemente tagliati fuori dalle rotte su cui si muoveva il mainstream, hanno costruito fin dagli esordi un’identità difficilmente confondibile caratterizzata da un gusto pop obliquo e nevrotico che per molti ha rappresentato la manifestazione più alta di tutta la scena di Olympia che orbitava attorno alla figura di Calvin Johnson. In Stranger to Ourselves i tratti distintivi del gruppo rimangono gli stessi – la voce psicotica di Brock, gli armonici modulati delle chitarre e una robusta e danzereccia sezione ritmica –, ma vengono mischiati con timbriche e arrangiamenti differenti. Il disco però ricalca l’eclettica impronta sonora del gruppo senza aggiungere molto a quanto già fatto: si ascolti a questo proposito Lampshades on Fire, in cui l’abilità di mischiare e frullare diversi elementi risulta evidente. The Tortoise and the Tourist è invece uno dei passaggi più intensi, dove la band  istruisce ordine al caos, mentre l’ultimo capitolo, Of Course We Know, offre il suo lato più meditabondo. C’è da dire che nei quindici pezzi dell’album non mancano un paio di episodi che il gruppo avrebbe potuto eufemisticamente risparmiarci (Pistol). Il singolo Coyotes, ispirato a un fatto di cronaca avvenuto a Portland, è invece una canzone splendida in cui l’arpeggio zigzagante della chitarra sfocia in un outro da pelle d’oca.
Stranger to Ourselves è il prodotto di un gruppo che sembra aver già raggiunto la cima della montagna, ma che dimostra allo stesso tempo quanto la sua musica sia attuale ancora oggi, a più di otto anni dall’ultimo disco.

Tobias Jesso Jr – Goon

Nella penombra di un giardino un ragazzo riccioluto ci osserva discretamente come a chiedere la nostra attenzione. Il suo disco d’esordio si chiama Goon e da lui in molti s’aspettano qualcosa di grande. Tobias Jesso è un giovane canadese finito sotto i riflettori dopo aver pubblicato una canzone su Youtube. La sua storia è talmente semplice da sembrare pensata da qualche sceneggiatore: tornato nella sua città natale, Vancouver, dopo qualche anno non particolarmente fortunato a Los Angeles, Jesso decide di mettersi a suonare il pianoforte a ventisette anni, mentre di giorno lavora in una ditta di trasporti. Due anni dopo esce questo album, che include illustri collaborazioni con alcuni dei musicisti con cui Jesso aveva sempre desiderato suonare. Già dalla prima canzone un fraseggio di piano anticipa quello che sarà il leimotiv del disco: una dichiarazione d’amore al pianoforte, un suono tipicamente anni Settanta e un’atmosfera intima da confessionale in cui la voce delicata e calda di Jesso non perde un colpo. Tra le dodici canzoni presenti nel disco, Without you e Can We Still be Friends si distinguono per gli echi beatlesiani: se nella prima il tono delicato e sognante resuscita lo stile di Lennon, l’arrangiamento degli archi e il piglio romantico della seconda sembrano usciti dalla penna del Macca. How Could You Babe? è il singolo che cattura meglio l’anima seventies di Jesso, mentre The Wait è uno dei pochi pezzi in cui la chitarra acustica prende il sopravvento sull’onnipresente pianoforte.
Goon è un disco semplice e intenso, che va dritto dove deve andare, per un ragazzo che è riuscito a trovare inaspettatamente la propria “voce” dopo un trascorso da gregario.

Kendrick Lamar – To Pimp a Butterfly

Direttamente da Compton, città della contea di Los Angeles nota per l’elevatissimo tasso di criminalità e per il fenomeno del Ganstarap, Kendrick Lamar pubblica la sua seconda fatica dopo il riuscitissimo Good Kid, M.A.A.D. City. Risulta complesso parlare di To Pimp a Butterfly come di di un disco prettamente hip hop: da una parte Lamar trascina l’ascoltatore in territori che spaziano dal jazz al funk, dall’altra è evidente che la sua abilità narrativa e il suo impegno sociale non sono cose facili da trovarsi in un genere che si è progressivamente allontanato dalla strada. Il disco è molto politico, lo si vede già a partire dalla copertina: ruota attorno alla condizione degli afroamericani negli Stati Uniti, prendendo esplicitamente le mosse da quanto successo a Ferguson (The Blacker the Berry), dalla posizione subalterna della comunità nera nella società americana (King Kunta) o dalla diffidenza intracomunitaria (How Much a Dollar Really Cost). Ma non mancano anche i momenti più introspettivi, in cui Lamar viviseziona la propria persona con un coltello da cucina (U). Particolarmente variegata la pletora di ospiti, tra cui il buon Flying Lotus, a cui Lamar aveva prestato la voce per questo singolo uscito l’anno scorso.
Con To Pimp a Butterfly il rap ritorna rumorosamente nelle strade e sarà difficile fare finta di nulla.

Sufjan Stevens – Carrie and Lowell

A distanza di cinque anni dall’ultimo LP The Age Of Adz, Sufjan Stevens ritorna con un lavoro che sancisce il ritorno alla semplicità acustica degli esordi. Il manierismo elettronico del predecessore, che lo aveva fatto arrivare in alto nelle classifiche americane, lascia spazio a un’atmosfera spoglia animata da chitarre, piano e banjo. Non ci sono arrangiamenti orchestrali né percussioni in questa maratona che ci porta nella storia, molto sofferta, di Stevens. I due raffigurati nella cover, infatti, sono rispettivamente la madre, mancata due anni fa, e il patrigno, oggi direttore dell’etichetta che pubblica il disco. Nelle undici canzoni di Carrie and Lowell troverete tutto l’universo emotivo di Stevens nei confronti della madre: un viaggio nei felici ricordi di infanzia in Oregon (Eugene), dove da piccolo passava le estati con i fratelli, i sensi di colpa (Should Have Know Better) e l’elaborazione del lutto perfettamente musicati con intramezzi strumentali di tastiere ambient che sembrano raccontare la discesa del sipario sulla vita di Carrie. Alla luce di questo, l’essenzialità delle canzoni è tanto disarmante quanto comprensibile: la voce delicata e malinconica prende il sopravvento sugli arrangiamenti.
Nel corso della sua carriera, Stevens ha cantato un mondo immaginifico in cui le storie e i riferimenti alla mitologia greca, cristiana e fantascientifica, sono stati mischiati all’esperienza personale. In Carrie and Lowell non c’è possibilità di evasione, ma solo la necessità di digerire un presente pesante.

Courtney Barnett – Sometimes I Sit and Think, Sometimes I Just Sit

In questo disco d’esordio, Courtney Barnett, musicista australiana di Melbourne, spalanca definitivamente le porte del suo mondo, facendoci percepire meglio quanto si era già intravisto nei suoi due ep: un’ottima musicalità abbinata a una verve narrativa non comune. Le storie su cui si muovono i personaggi di Sometimes I Sit and Think, Sometimes I Just Sit si stagliano su uno sfondo rockeggiante in cui le influenze garage e grunge si alternano a passaggi più acustici. Nel primo pezzo, Elavator Operator, Barnett racconta la parabola mattiniera di un giovane impiegato che decidendo di non andare a lavoro incontra casualmente una donna con cui si lascia andare a un discorso surreale. Il singolo è Pedestrian at Best e sembra scritto dai Mudhoney: le chitarre fuzz e il climax del verso sfociano in un ritornello al vetriolo che farà la felicità di chi rimpiange i primi anni Novanta; in Depreston, invece, Barnett ci porta in giro per la periferia di Melbourne in compagnia di agenti immobiliari che propongono a una coppia squattrinata l’affitto di una casa dove ogni cosa ricorda ancora la defunta proprietaria.
Quello di Courtney Barnett è un disco che non deluderà gli ammiratori di Angel Olsen e Sharon Van Etten.