Kenny Barron e Dave Holland, rispettivamente pianista e contrabbassista, sono due decani le cui discografie superano la lunghezza di questo articolo, giustificando il cliché di ‘enciclopedie viventi del jazz’. Il loro sodalizio, iniziato nel 2012 con una serie di concerti, ha suscitato a buon titolo aspettative molto alte: entrambi i musicisti vantano una tecnica sopraffina e la capacità di adattarsi a contesti musicali disparati; inoltre i due, quasi coetanei (Barron è del ’43, Holland del ’46), hanno collaborato più volte nel corso delle loro lunghe carriere.

Il loro tour del 2014 è stato inaugurato a Treviso nella data simbolica del 30 aprile, la giornata che già da tre anni l’UNESCO ha ufficialmente nominato International Jazz Day. In un giorno quindi ricco di eventi, che peraltro conclude il più ampio programma del Jazz Appreciation Month, il concerto di Barron e Holland spicca comunque come un evento di primissimo piano a livello non solo nazionale; assicurarsi la loro presenza è stato un colpo di notevole bravura da parte degli organizzatori, che conferma il mutato clima culturale in città. Questo è infatti il primo Jazz Day trevigiano, sebbene la Marca conti altre manifestazioni dedicate al jazz, fra cui Sile Jazz (anche questa nata nel 2012) e la programmazione del Teatro Comunale.

Proprio il Comunale, per l’occasione gremito, ha ospitato il concerto del duo. In quell’occasione è risultato evidente anzitutto il puro piacere di suonare insieme sotteso al progetto: i due veterani non hanno a questo punto bisogno di dimostrare nulla, e possono lasciare che siano le rispettive discografie a parlare per loro. E l’amalgama che hanno raggiunto è ammirevole: lo stile limpido di Barron lascia trasparire senza coprirlo quello pieno e rotondo di Holland, che a sua volta satura il sound complessivo. Un connubio perfetto e sapiente. È inoltre evidente che i due interagiscono in modo paritario, superando la gerarchia fra strumento solista e sezione ritmica. A più riprese anzi è il bassista a lanciarsi in assolo torrenziali, tanto corposi da non necessitare a volte nemmeno della partecipazione del pianoforte, secondo l’insegnamento impartitogli quarant’anni fa da Sam Rivers: “Don’t leave anything out – play all of it” (nella prima sessione pubblicata a nome di Holland, il capolavoro free jazz Conference of the Birds del 1973, lo stile viscerale di Rivers si contrapponeva a quello più cerebrale dell’altro sassofonista, Anthony Braxton).

La scelta radicale di ridurre l’ensemble a un duo spinge Holland e Barron, in un certo senso necessariamente, a operare al di fuori di una gerarchia preordinata, assumendo a turno il ruolo di accompagnatore per sopperire all’assenza di altri strumenti; la collaborazione è pertanto improntata a un dialogo a due, con un gioco di contrappesi visivamente spiazzante: al misurato ed elegante stile del corpulento afro-americano Barron risponde quello più aggressivo del longilineo britannico Holland, che in alcuni frangenti si muove sul palco quasi a voler prendere la rincorsa prima dell’ennesimo attacco alla tastiera.

Non si tratta quindi (inchallah) di un trio jazz, nemmeno uno da cui sia stato chirurgicamente asportata la batteria; in questo contesto, ancor prima che un terzo strumento dotato delle proprie peculiarità timbriche, un batterista sarebbe stato una terza personalità, che partecipando al dialogo ne avrebbe inevitabilmente alterato le dinamiche.

A fine concerto, Holland aveva rivelato che la collaborazione si sarebbe concretizzata in un disco, la cui data di pubblicazione era prevista per l’autunno seguente. L’uscita è stata successivamente confermata per la rediviva Impulse! Records il 14 ottobre, e il titolo non poteva essere che The Art of Conversation.

Il disco conferma tutte le qualità dimostrate dal vivo, ed è un piacere vederlo pubblicato dalla storica casa discografica, che nel corso del 2014 ha ripreso l’attività pubblicando tra le altre uscite un duo di Jim Hall e Charlie Haden e un concerto finora inedito di John Coltrane.

Holland e Barron firmano rispettivamente quattro e tre brani, a riprova del fatto che si tratta non solamente di interpreti sopraffini ma anche di navigati compositori. Consultando i credits si scopre così che, in maniera pressoché sistematica, il privilegio dell’assolo è riservato a ciascuno nei brani composti dall’altro: nell’iniziale “The Oracle”, brano che già aveva dato il titolo al disco di Holland con Hank Jones e Billy Higgins, il bassista stende un tappeto armonico che prelude all’entrata in scena del piano, quietamente maestosa. Allo stesso modo, la splendida “In Your Arms” diventa un’ottima occasione per mettere in mostra l’asciutto lirismo di Barron. Nella barroniana “Rain” è invece il basso a ‘cantare’ la melodia, e il risultato è struggente.

Anche su disco, la sinergia è impeccabile. Gli assolo si alternano senza strappi, e spesso l’impressione è che i due non stiano improvvisando su di un tema quanto conducendo un discorso: ciascuno con la propria voce, personale e inconfondibile, ma prestando attentamente ascolto all’altro.

E il dialogo si allarga idealmente ai colleghi con cui hanno condiviso il palco nel corso delle rispettive instancabili e prolifiche carriere. Holland dedica un brano al trombettista Kenny Wheeler, con cui aveva suonato a lungo e che è venuto a mancare questo autunno; “Waltz for Wheeler” sembra voler mascherare ripetutamente la propria cadenza dispari. Al centro dell’album compare “In Walked Bud”, classico monkiano a sua volta dedicato a Bud Powell. Monk è un’influenza duratura per Barron, che aveva militato nella tribute band Sphere e anche per i dischi a suo nome aveva scelto titoli quali Green Chimneys. Già all’epoca mostrava di aver appreso la lezione di Thelonious in maniera tutt’altro che pedissequa, tanto che il brano più ‘monkiano’ di The Art of Conversation  risulta essere un originale barroniano, “The Only One”, che Frank Alkyer per Down Beat identifica correttamente come un omaggio a “Well You Needn’t”. Qui e lì tra le note spunta un’influenza latina, che già Jelly Roll Morton prescriveva come ingrediente fondamentale del jazz, e che secondo gli autori della Penguin Jazz Guide Barron ha ereditato dal periodo trascorso nel Dizzy Gillespie Quartet. Queste conversazioni a distanza con i maestri si concentrano nella parte centrale del programma; è il caso della cover di “Segment” di Charlie Parker, una scelta forse sorprendente ma eseguita con le debite qualità di precisione e velocità mozzafiato.

“Day Dream” di Duke Ellington e Billy Strayhdorn conclude l’album con un’atmosfera rarefatta e delicata.

Il termine più frequente per definire l’ambito in cui opera Barron è ‘mainstream’, che è accurato ma non rende giustizia alle doti di cui qui si è cercato di dare conto. Holland proviene dalla stessa scena avantgarde inglese di Evan Parker e Derek Bailey, ed era poco più che ventenne quando entrò nel gruppo di Miles Davis (partecipando nel giro di un paio d’anni a capolavori del calibro di Filles de Kilimanjaro, In a Silent Way e Bitches Brew). Ma tanto i pedigree di questi due artisti sono diversi, pur all’interno dello stesso genere musicale, quanto la lista delle loro collaborazioni è folta; non stupisce che abbiano deciso di condividere il palco, né che i risultati siano di qualità così alta. C’è da sperare che, dopo il recente tour invernale, decidano di trovare il tempo d’incontrarsi ancora e magari, in futuro, di tornare in studio a registrare.

Kenny Barron e Dave Holland, The Art of Conversation, Impulse!, 2014