Esistono luoghi televisivi talmente evocativi da insidiarsi tra i ricordi del telespettatore, finendo col sovrapporsi  ai ricordi di paesaggi reali. All’inizio degli anni novanta c’era una strada che si snodava tra alte sequoie, sotto un cielo plumbeo e opprimente, poi improvvisamente tutto scompariva e restava solo il volto pallido di Laura Palmer avvolto nella plastica, autentica reliquia televisiva, icona di un’epoca culturale sprovvista di miti e mitologie. Twin Peaks sembrava il prodotto adatto a rappresentare la stagione che decretava la fine degli anni ottanta: niente più storie di dinastie e delle loro lotte di potere (Dinasty), ma le intime e apparentemente banali vicende di una sonnolenta cittadina al confine con il Canada, lontana dai clamori delle grandi metropoli. Il prodotto risultò interessante fin da subito, questo giallo della provincia americana tenne inchiodati milioni di spettatori, curiosi di conoscere il volto dell’assassino. David Lynch attraversava un momento estremamente prolifico della sua carriera. Dopo un esordio folgorante nel cinema underground con il film Eraserhead, l’arrivo della fama mondiale con The Elephant Man e un lavoro ambizioso quanto difficile come Dune, il regista americano raggiungeva infatti la sua consacrazione con Velluto Blu, probabilmente il film più disturbante e originale dell’intera filmografia americana degli anni ottanta. In qualche modo Twin Peaks ne è la traduzione televisiva, per atmosfere e temi trattati. Il serial televisivo e Velluto Blu ruotano, infatti, su uno dei temi cardine della poetica di Lynch, il rivelarsi progressivo dell’orrore annidato sotto l’epidermide della normalità: “in Velluto blu c’è un turbamento che contrasta con lo scenario banale in cui è ambientato”.  Lynch lo definiva un “piccolo film d’atmosfera” con “molte scene sinistre, ma anche alcune leggere”¹.

L’atmosfera per me è importantissima perché ha a che fare con la sensazione tattile, gli odori e i luoghi del film e dev’essere perfetta. È così che il film acquista una realtà²

La serie televisiva e il film nascono dalla stessa matrice, in cui leggerezza, comicità e orrore costituiscono un’unica indistinta trama, così assurda da risultare reale, ma soprattutto da un’atmosfera che preesiste alla sceneggiatura stessa. “Abbiamo disegnato una mappa”, spiega il coautore e coproduttore Mark Frost “Abbiamo iniziato con l’immagine di un cadavere spiaggiato in riva a un lago. Sapevamo che la città aveva una segheria, ma non eravamo sicuri dei dettagli” e dopo tre mesi di intense discussioni , la sceneggiatura viene stesa in dieci giorni.

Sia Twin Peaks che Velluto blu sono innanzitutto sguardi su ecosistemi chiusi, comunità isolate dal mondo travolte improvvisamente da violente e inaspettate vicende di cronaca. David Lynch non fa altro che trasportare il dispositivo sul piano della realtà: si insinua nelle case di milioni di telespettatori offrendo un prodotto commestibile, dalla confezione riconoscibile e consueta, per poi far tremare le fondamenta con scosse sempre più forti.
La similitudine del giornalista David Chute a proposito dello stile di Lynch, esprime alla perfezione l’atmosfera della serie televisiva: “è come se la parete del salotto di un film di Frank Capra si spalancasse per rivelare, dall’altra parte, un rituale di sopraffazione coreografato dal marchese de Sade.” Kyle MacLachlan, attore feticcio di Lynch, passa dal ruolo di Jeffrey Beaumont, una specie di boyscout che ficca il naso dove non dovrebbe in Velluto blu, al ruolo dell’agente Cooper in Twin Peaks, sorta di versione cresciuta del personaggio precedente, che mantiene però le tipiche idiosincrasie lynchiane: non riesce ad abituarsi agli alberi alti della zona e recita ogni suo pensiero al videoregistratore. L’immaginario di Lynch sbarca dunque in televisione, senza compromessi, semplicemente adattandosi al mezzo:

La serie, un capriccio che sovverte, pur senza distruggerli, tutti i canoni televisivi, offriva una strana fetta di torta di mele in cui s’incontrano il distorto e il familiare, producendo un’overdose di melassa kitsch, con tanto di gelato. Accompagnata da un’attenzione frenetica e vorace da parte dei media, la prima stagione di Twin Peaks nella primavera del 1990 fu eccezionale: nove ore di nani ballerini, echi di rapaci notturni e un’aura senza precedenti nella storia della televisione americana. (David Brskin, Perdersi è meraviglioso, p.103)

A sorprendere maggiormente chi si sofferma sulla figura e la popolarità di David Lynch è la sua perfetta ambivalenza artistica, un vero rompicapo: tra i registi più criptici ed enigmatici del cinema mondiale e al tempo stesso tra quelli più popular e accessibili. La sua sintassi visiva è ormai un marchio di fabbrica, la sua grammatica entrata a pieno diritto nel lessico cinematografico, tanto da esigere il conio di un neologismo che definisce una specifica atmosfera, quella appunto lynchiana.
Tutto questo lo si deve a un’opera fatta di elementi che si richiamano tra di loro, un insieme di simboli rigidamente codificati, che vanno a comporre una vera e propria cosmogonia: vento, fuoco, elettricità. I film di Lynch sembrano quasi dei rituali, che crescono e prendono respiro a partire da un’immagine, un suono o una semplice atmosfera, in un  processo compositivo che ricorda più quello pittorico o musicale che quello filmico. È il segno di quanto il regista americano abbia da sempre esplorato con grande successo altri linguaggi oltre quello cinematografico, a dimostrarlo sono i suoi giovanili lavori di animazione, le sue numerose mostre di pittura e fotografia (tra le quali una di qualche anno fa alla Triennale di Milano) e non ultima in ordine di importanza la sua produzione musicale, incredibile laboratorio sonoro che spazia dal blues a un’elettronica di elevatissima fattura (tanto da suscitare l’interesse di gente del calibro di Moby, che rivisita uno dei sui brani).

Chi ha conosciuto Lynch, lo dipinge, però, per un uomo dall’aspetto e dai modi ordinari, un lavoratore puntuale e corretto, niente a che vedere con le stravaganze di Hollywood.

Ogni volta che gli chiedo dove gli vengano le idee, dice che è come pescare. Non sa mai cosa sta per tirare su. Questo medium angelico è allo stesso tempo solidamente ancorato alla realtà. Fa giardinaggio e costruisce oggetti. Sul set è di una calma soprannaturale e sicuro di ciò che vuole. Responsabile, rispettoso dei budget e delle scadenze, non fa quasi mai lo storyboard di una scena, tenendosi aperto ai suggerimenti o al caso. Non è uno scriteriato. Come tutti i veri sovversivi, sa passare per un uomo comune [… ] è incredibilmente responsabile e concentrato. Twin Peaks è stato realizzato entro i limiti di budget e di tempo. Credo avesse tutto quanto già nella testa ancora prima di mettere piede nel mio ufficio. (Gary Levin, vicepresidente dello sviluppo delle serie drammatiche alla abc)

Lynch insomma architetta i suoi vertiginosi scenari al confine tra realtà e sogno con il metodo e la costanza dell’artigiano, rimescolando pochi ma potentissimi elementi, di cui ha saputo preservare la forza dopo più di trent’anni di carriera, dimostrando una fede incrollabile nei suoi progetti, come durante le riprese del suo primo lungometraggio, The Eraserhead, un calvario durato cinque anni (dal 1971 al 1976) e che lo portò a dormire sul set, con delle coperte stese sulle finestre e chiuso dentro a chiave, per non destare sospetti nel custode.

Ed ecco l’annuncio l’ottobre scorso del ritorno di Twin Peaks: una nuova stagione da nove episodi tutti diretti da Lynch, che saranno trasmessi da Showtime nel 2016, 25 anni dopo, per completare quel lavoro interrotto bruscamente alla fine della seconda stagione; la serie si chiudeva con un visionario episodio diretto da un Lynch mai stato così libero di scatenare il proprio talento,  che lasciava però irrisolte molte linee narrative e ne apriva altre ancor più misteriose. C’era ancora troppo da raccontare su Twin Peaks per pensare che il regista del Missoula non fosse prima o poi tentato dal ritornare alla Roadhouse per sorseggiare una buona tazza di caffè nero e riprendere quell’idea pescata tanto tempo fa, in profondità abissali, e che ancora adesso non smette di brillare; è tutta una questione di fedeltà, come ci spiega lo stesso regista:

Credo davvero che sia come dicevano i Beach Boys: “Sii fedele alla tua scuola”. Bisogna essere fedeli alle proprie idee, perché sono ancora più grandi di quanto uno pensi inizialmente. E se non gli si è fedeli, funzioneranno solo in parte. Sono quasi come dei doni, anche se non le si comprende al cento per cento, avranno il suono della verità, e la conterranno a vari livelli. Ma se le si altera troppo non avranno più nessun suono. Produrranno solo un tonfo sordo

¹David Lynch, Perdersi è meraviglioso, Minimum Fax, p. 57.

²David Lynch, Perdersi è meraviglioso, Minimum Fax, p. 55.

³David Brskin, Perdersi è meraviglioso, Minimum Fax, p.103.