In questi giorni è proprio il caso di dire che Gerusalemme stia bruciando.

Le scorse settimane sono state all’insegna delle provocazioni lanciate dall’una e dall’altra parte. Il contesto di tensione è ormai cronicizzato, a questo si è aggiunta la decisione del governo Netanyahu di costruire 500 nuovi alloggi nella parte est di Gerusalemme. Criticato da molti per il suo disegno politico fortemente in contrasto con la possibilità di procedere sul tavolo dei negoziati, l’esponente del Likud, (partito di destra Israeliano) nonché primo ministro, tuttavia non sembra molto preoccupato dalle conseguenze della propria politica attuale.

Le ultime 3 settimane sono state caratterizzate da alcuni importanti avvenimenti.

La tensione ha raggiunto un nuovo picco il 22 ottobre, quando un palestinese alla guida della propria auto ha volontariamente sterzato verso una fermata del tram che collega la città vecchia a uno degli insediamenti posti in direzione di Ramallah, ferendo 4 persone e uccidendo una bambina di soli 3 mesi. Sceso dalla macchina l’autista è stato raggiunto dalla polizia israeliana la quale ha aperto il fuoco uccidendolo. A seguito di questo avvenimento le forze di sicurezza hanno stabilito che il corpo dell’investitore palestinese non sarebbe stato riconsegnato alla famiglia e che i funerali si sarebbero svolti sotto il controllo delle forze di sicurezza israeliane e a porte chiuse, consentendo l’ingresso di sole 20 persone alla cerimonia.

Tale decisione ha determinato la scoppio di diverse dimostrazioni di dissenso soprattutto in alcuni quartieri più sensibili di Gerusalemme: Ras Al-Amud, Shuafat, El-Ezzarya, El-Essaweya, Wadi El-Joz.

Ciò che ha fatto però montare la tensione a livelli prima sconosciuti è stato il tentato omicidio di Yehuda Glick , rabbino e attivista di origini americane appartenente all’estrema destra Israeliana, e la successiva decisione del governo Israeliano di chiudere l’accesso alla moschea di Al-Aqsa.

Yehuda Glick da anni predicava la necessità che gli ebrei si riappropriassero della zona della spianata delle moschee dove oggi sorge la moschea di Al-Aqsa e il santuario della vergine delle rocce e dove un tempo sorgeva il tempio di Salomone distrutto per la seconda, e ultima volta, dai romani nel 70 d.c. L’attività di Yehuda Glick consisteva prevalentemente nell’organizzare delle visite guidate, che per molti avevano il gusto di una rivendicazione politica (qui sorgeva il nostro tempio e qui noi vogliamo tornare a pregare), nelle quali predicava la ricostruzione del tempio. Tale attività continuava da diverso tempo.

Il 30 ottobre, alla fine di una conferenza tenuta a Gerusalemme da diversi partecipanti – tra cui lo stesso Yehuda Glick – un arabo palestinese alla guida di una moto e coperto dal casco si è avvicinato al rabbino, accertandosi prima della corretta identità dello stesso, e ha esploso diversi colpi diretti al petto dell’attivista israeliano.

Tale avvenimento ha comportato una serie di misure di sicurezza adottate in tutta la città durante la sera del mercoledì, che sono sfociate nella cattura e uccisione sul posto del sospettato il giorno successivo. In più, in tutta la zona della moschea è stato interdetto l’accesso ai musulmani con meno di 50 anni per il giorno del venerdì, giorno tradizionale di preghiera per gli arabi. Da sottolineare il fatto che la spianata della moschea non veniva chiusa dal ’67, cioè da quando Israele si è rimpossessata di tutta Gerusalemme, compresa la parte della spianata che fino a quel momento era rimasta in mano ai giordani.

La proibizione di accedere al terzo luogo sacro per l’Islam ha scatenato la reazione dell’ANP che ha dichiarato venerdì scorso e venerdì 7 novembre il “giorno della rabbia”.

La tensione durante la settimana ha registrato solo una leggero affievolimento ed è riesplosa quando mercoledì 5 novembre un altro autista alla guida del proprio furgoncino ha investito 8 persone alla fermata del tram. Appena sceso dall’auto, brandendo un tubo di ferro, è stato ucciso sul posto dalla polizia.

La reazione del governo anche in questo caso non si è fatta attendere e, bissando la decisione presa la settimana precedente, ha chiuso l’accesso alla mosche posta nella città vecchia sta volta per i musulmani al di sotto dei 35 anni, una leggera concessione rispetto a quella del venerdì precedente. Anche in questo caso il funerale dell’attentatore si è tenuto a porte chiuse con l’accesso consentito a sole 35 persone.

Il venerdì, a conclusione della preghiera settimanale si sono, come prevedibile, scatenate le reazioni e le dimostrazioni da parte della popolazione palestinese. Epicentro di tali scontri è stato il quartiere di Shuafat, sede di un campo profughi palestinese e quartiere di residenza dell’ultimo dei due attentatori.

Gli scontri si sono prolungati per tutta la giornata con una medio-alta intensità.

Questi avvenimenti impongono un’analisi. Come preannunciato nel titolo, qualcuno comincia a chiedersi se siamo sul punto dello scoppio di una terza intifada, dopo quella del ‘87-‘93 e quella del 2000-2002.

Chiariamo che cosa sia l’intifada tanto per cominciare.

Per intifada si intende un movimento popolare collettivo di rivolta verso la forza di occupazione. Il termine ha una forte appartenenza a questo territorio, dunque non sentirete parlare di intifada in Sud America per esempio o in Tibet. L’intifada si sviluppa tramite azioni di guerriglia urbana, barricate fatte coi copertoni, cassonetti dell’immondizia dati alle fiamme, lancio di molotov e sassi contro le forze di polizia intervenute per sedare i disordini.

Nei quartieri sopra menzionati talvolta succedono di queste dimostrazioni, per lo più prendono il via verso il venerdì nel tardo pomeriggio e si spengono nell’arco di qualche ora. Sono per lo più giovani e giovanissimi a iniziare i disordini.

Quanto sta accadendo in questi giorni però ha qualche cosa di diverso, l’Autorità Palestinese si è espressa in merito al comportamento del governo israeliano con toni abbastanza duri, dichiarando – per esempio – che la chiusura della moschea di Al-Aqsa era una vera e propria dichiarazione di guerra, e anche Hamas ha fatto sentire la propria voce. La voce di Hamas ha un valore decisamente rilevante in quanto a seguito della guerra conclusasi lo scorso 26 agosto ha assunto un  ruolo determinante nella guida del movimento armato contro Israele.

Valutazioni delle Forze di Difesa Israeliane riportano come la difficilissima situazione economica, la mancanza di orizzonti diplomatici, il senso di frustrazione tra la popolazione per l’insostenibile situazione attuale e, infine, la percezione che non ci sia più niente da fare stanno funzionando come fattori di catalizzazione della violenza. Ma vi è qualcosa di più, che fino ad oggi non era accaduto. Quanto di diverso sta accadendo è l’atteggiamento di Israele nei confronti della comunità internazionale e della comunità internazionale nei confronti di Israele.

Israele, è cosa risaputa, vive degli aiuti economici forniti dagli Stati Uniti, e dai rapporti economici con l’Unione Europea.

Ultimamente le dichiarazioni del presidente Obama hanno fatto tremare i polsi al governo di Tel Aviv, e nelle ultime 3 settimane dapprima il governo inglese ha promosso una mozione per il riconoscimento dello stato palestinese, poi la Svezia ha riconosciuto de facto lo stato palestinese e infine è stata promossa una mozione all’Assemblea Nazionale francese per sottoporre la questione del riconoscimento dello Stato Palestinese e molto probabilmente la Spagna sarà la prossima a farlo.

Peraltro il ministro dei trasporti israeliano ha accolto con un laconico e politicamente imbarazzante commento la decisione svedese: “La Svezia deve capire che qui le cose in Medio Oriente sono un po’ più complicate che montare un mobile dell’Ikea”

L’amministrazione Obama dal canto suo, nonostante abbia appena perso le elezioni di Mid-term dello scorso 4 novembre, ha cominciato a prendere le distanze dalla politica coloniale di Israele sostanzialmente rinegoziando il proprio appoggio incondizionato al governo di Tel Aviv qualora lo stesso non interrompa la propria politica espansionistica, preannunciando che non avrebbe posto il veto in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite riguardo alla votazione sull’approvazione o meno dei nuovi settlements.

In questi giorni la nuova Alta Rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini, ha visitato i territori palestinesi e ha incontrato i vertici del governo israeliano sottolineando la necessità di trovare una nuova apertura ai negoziati di pace.

Il sistema israeliano, e questa è una mia personalissima analisi, rischia, più che un attacco dall’esterno, un’implosione dall’interno. Israele sta vivendo un momento di forte frizione interna in quanto le parti sociali cominciano ad essere divise al loro interno.

Da un lato la componente secolare comincia a percepire lo spauracchio dell’isolamento internazionale cui Israele sta andando pericolosamente incontro, tanto per fare un esempio pochi giorni fa la Giordania ha richiamato il proprio ambasciatore come forma di protesta per la politica sfacciatamente colonialista; dall’altro il movimento dei settlers comincia ad essere in contrasto alò suo interno in quanto un settlement è più agevolato di un altro e questo genera tensioni e scontri; in ultimo luogo la componente religioso ortodossa crea dei forti contrasti soprattutto per una questione di tipo socio-economico. Coloro che appartengono al movimento ortodosso sono infatti una vera e propria enclave, autoghettizzatasi in quanto non partecipano alla leva – obbligatoria per tutti gli israeliani – e non lavorano, sono esentati dalle tasse e percepiscono un sussidio di mantenimento.

Queste tre parti sociali cozzano tra di loro e la stessa amministrazione di destra che attualmente regge il governo vive in ostaggio di questi attori.

Il movimento ortodosso rappresenta la spina dorsale religiosa dello Stato, sono gli studiosi della Torah, quasi la giustificazione storica dell’esistenza del popolo ebraico che ha funzionato da collante per i 2000 anni di diaspora ebraica , e tuttora continua a funzionare in tal senso. Per conto suo l’”azienda” delle colonie rappresenta 3 miliardi di dollari di investimenti e quindi un passo indietro in tal senso significherebbe un vulnus incolmabile economicamente parlando, per non parlare della visione politica che sta dietro all’ideologia del settlement, quella ricerca di territorio vitale verso la Giordania che fin dalla fondazione dello Stato di Israele è stato l’anelito di speranza per la stessa esistenza dello Stato ebraico.

In ultimo, la società più secolare, quella che per la maggior parte sostiene l’impegno economico statale tramite la contribuzione fiscale, comincia a manifestare il proprio disappunto nei confronti dell’amministrazione Netanyahu. Durante l‘ultima guerra di Gaza, per esempio, sono state numerose e affollate le manifestazioni a Tel Aviv, e non è certo possibile trascurare chi provvede a pagare gli stipendi di tutti.

L’ultimo elemento che manca per il completamento del quadro è la società palestinese. I movimenti che stanno trovando spazio nell’ultimo periodo sono – credo – qualcosa di più rispetto a singole e isolate manifestazioni di dissenso, ma non sono ancora abbastanza mature per diventare quella sollevazione popolare che caratterizza l’Intifada. Ciò che potrebbe far maturare tali sollevazioni è l’emersione di una leadership che intercetti l’assenso popolare nella sostanza politica ma anche nella forma. Hamas in questo senso si è proposta come un valido partner per svolgere questo ruolo avendo dimostrato coerenza e forza per stare dalla parte del popolo, di chi soffre, avendo loro stessi perso case e famiglie a Gaza. Un ulteriore rischio, che però porterebbe il livello dello scontro su un piano molto più irrazionale, è quello dell’emersione di fazioni islamiste, ricordiamo che l’ISIS sta agendo su un territorio non molto lontano dai confini di Israele e della Palestina dando un esempio militare, e anche politico, che non deve essere trascurato e di fatto gli Stati Uniti stanno intervenendo con un impegno sempre maggiore proprio perché consapevoli di non dover trascurare un probabile nemico oggi alle porte d’oriente, che potrebbe diventare un nemico certo alle porte d’occidente domani.

In questo contesto gli spazi di inserimento per l’ANP diventano sempre più stretti, eppure ne rimangono ancora, a patto che i tempi si restringano. Dal canto suo la comunità internazionale ha un ruolo fondamentale nel polarizzare gli scontri o nell’allentarne le tensioni.

Se non si arriva nel breve periodo, forse brevissimo, a un intervento massiccio di attori esterni che portino una ventata di aria fresca sul tavolo dei negoziati, e che si impegnino seriamente nel processo di pace, a breve potremmo vedere lo scoppio di una terza intifada guidata da una leadership decisamente più agguerrita e capace di sostenere il movimento di rivolta data l’esperienza maturata sia a livello internazionale – in Siria, Libano, Iraq –, sia a livello nazionale con l’ultima guerra di Gaza. L’appoggio ad Hamas è palpabile e anche chi si ritiene su posizioni moderate comincia a strizzare l’occhio alla proposta di Hamas in quanto per molti peggio di cosi non si può andare, e non c’è peggior nemico di chi non abbia nulla da perdere.