Mi interessano molto i libri in cui chi scrive affronta il dolore di una malattia o di un lutto relativo a un proprio caro. Trovo particolarmente affascinante, perturbante e nobile il desiderio di esorcizzare un dolore nella scrittura. E trovo ancora più speciale e in certo senso impressionante quando questa scrittura terapeutica non cede al patetico, a un’enfasi retorica che pure sarebbe normale, perché spontanea – le parole del dolore spesso sono le più usate e logorate, da fuori appaiono vuote –, ma piuttosto trattiene la catarsi, oppure la realizza per una via obliqua, faticosissima, quella di uno stile asciutto e pacato, che cerca una precaria imparzialità sforzandosi di non cedere, oppure quella dell’ironia, o addirittura del comico. Trovo interessante il desiderio di affidarsi alla scrittura per capire e per mettere a distanza, e non solo per condividere una sofferenza troppo pesante da sopportare da soli.

Questo genere di libri non mi hanno interessato da sempre. Ma da un momento preciso. Cioè da quando ho cominciato a leggere un libro regalatomi da una cara amica. S’intitola Le ossa del Gabibbo, l’ha scritto Virginia Virilli ed è uscito alla fine del 2012. L’autrice, una ragazza di poco più di trent’anni, racconta la malattia della madre, una sclerosi multipla che l’ha prima obbligata ad abbandonare il suo lavoro e poi, piano piano, ha ridotto le sue facoltà motorie e nervose, rendendola sempre meno padrona del mondo intorno a lei e sempre più chiusa in una dimensione inaccessibile agli altri. È lei, la madre, Picozzi, come viene sempre chiamata, la vera protagonista di questo romanzo ed è, a tutti gli effetti, un vero personaggio letterario: gli handicap fisici, le idiosincrasie, il carattere volubile e soprattutto la cocciuta ed incontrastabile superbia diventano i tratti distintivi, per certi versi quasi magici, di una figura romanzesca a tutto tondo, nobile eroina di un romanzo che, seguendone le avventure e le disavventure, oscilla continuamente tra il comico, l’ironico e il grottesco. E questo accade senza che nulla appaia fuori posto o forzato, perché a guardare questa donna sono gli occhi prima di una bambina e poi di un’adolescente, troppo impegnata a occuparsi del proprio mondo per rendersi conto delle effettive ragioni che possono rendere la madre di volta in volta bellissima o ridicola, insofferente o buffa o anche imbarazzante.

Man mano che chi racconta cresce e matura, si affaccia la consapevolezza della sfortuna, dell’ingiustizia e del dolore che la malattia comporta, comporterà: ma l’inconsapevolezza di chi quella malattia porta con sé diventa un antidoto efficace per allontanare i pensieri e continuare a guardare alle cose con gli occhi di una normalità un po’ più particolare delle altre. Gli squilibri che la malattia inevitabilmente determina nel rapporto madre-figlia non vengono rimossi. Restano lì, con tutto il loro carico di sofferenza immedicabile, eppure non giustificano alcun compianto pietoso. Non c’è spazio per il fatalismo, né per la compassione, Picozzi incalza, obbliga a rimanere vigili, a comportarsi normalmente, ad affrontarla anche a muso duro; ed è così che il conflitto, un conflitto senza indulgenza eppure carico d’amore, diventato condizione necessaria di una quotidiana lotta per la sopravvivenza, trasforma la sofferenza in orgoglio e felicità.

Poi, qualche tempo fa, leggendo sul mio muro di Facebook, sono incappato in un insolito consiglio di lettura, rivolto, come sempre accade nei social network, alla comunità tutta. L’ho accolto e ho incominciato a leggere La caduta dello scrittore brasiliano Diogo Mainardi, che inizia così: «Tito ha una paralisi cerebrale». Tito è il figlio di Diogo, che nell’arco di 424 passi – 424 brevissimi frammenti, di narrazione scritta o visiva – racconta la malattia del figlio, ripercorrendone le tappe, dal momento dell’ingresso nell’ospedale di Venezia, nel palazzo della Scuola Grande di San Marco, fino a quando, dieci anni dopo, Tito fa il proprio ingresso, nello stesso ospedale, stavolta sulle proprie gambe, mettendo in fila, uno dopo l’altro, tanti piccoli passi. Più di 424.

In mezzo si dispiega tutta la storia di Tito, che nella mente del padre si collega alla Storia tutta: perché quello che è capitato a Tito è capitato anche ad altre persone prima di lui, più o meno fortunate di lui. E poi perché ogni luogo in cui Tito è stato, Venezia, Rio de Janeiro, Boston, porta con sé delle storie, a volte delle leggende, che a loro volta ne richiamano altre. La storia di Tito e della sua paralisi cerebrale diventa il palinsesto di un racconto genealogico che, alla maniera di Sebald, può arrivare a mettere insieme indifferentemente Dante e la sua attenzione per i passi nella salita al Purgatorio e The Wrong Child dei REM, canzone che  racconta di Christopher Nolan, tetraplegico che riuscì a scrivere il proprio libro di memorie; ma anche Pietro Lombardo, architetto della Scuola Grande di San Marco, celebrato da John Ruskin come capolavoro del Rinascimento veneziano, e le cadute di Pinotto, il socio di Gianni (al secolo Abbott and Costello), che ricordano tanto quelle di Tito quando ha imparato a camminare.

Per Diogo Mainardi ricostruire questa bizzarra genealogia serve a inserire Tito, la sua vita, la sua famiglia in una rete di corrispondenze che lo normalizzi senza annullarne l’eccezione, la sua malattia. Ma serve anche per individuare le colpe, per trovare i responsabili. La scrittura di Mainardi, così asciutta e antiretorica, efficace nello schivare ogni luogo comune proprio perché riparte dal grado zero della constatazione, è mossa da un amore puro per suo figlio, ma non per questo rinuncia ad attribuire le responsabilità, o a negare la fatica di una vita con, e per, un figlio handicappato. È una pratica d’igiene, in qualche modo, perché gli permette di sconnettere l’ingiustizia della malattia da quel senso di fatalità incomprensibile che troppo spesso la accompagna. Senza invocare pietà, senza pronunciare la rabbia, Mainardi permette a Tito di essere l’unico artefice della sua vita, di ogni suo passo, e di ogni sua caduta.

E allora. Quelli di Virilli e Mainardi sono libri diversi, per certi aspetti anche lontani. Eppure in loro ho trovato uno spirito comune, che corrisponde a una postura umana, prima ancora che letteraria, di fronte al lutto di una malattia. Certo, il fatto che siano entrambi persone di cultura – Virilli è autrice e attrice teatrale, Mainardi romanziere e giornalista – li rende maggiormente sensibili alle retoriche da evitare, attenti a schivare i luoghi comuni. Eppure, quando si ha a che fare con la malattia di un proprio caro nulla appare più scontato, neanche le più semplici norme professionali. Tutto vale purché possa aiutare a medicare il dolore. Per questo la loro scelta per una scrittura ironica, comica, a tratti anche irriverente, mi sembra coraggiosa. Perché inverte la logica, tenta la strada più difficile e incerta; una strada che può costeggiare la banalità e l’affronto, che con impertinenza sfida il buon senso, ma al termine della quale, probabilmente, si trova una meta più piena delle altre.