La prefazione a un libro mai scritto. Il ritratto rubato di un poeta sull’orlo della sparizione. O un viaggio immaginario alla ricerca di quel poeta. Ma poi, quel poeta, è mai esistito per davvero? Se sì, dove si nasconde? “La casa del poeta” potrebbe spiegarlo, ed essere una o l’altra delle tre opzioni, o forse tutte e tre insieme.
Tra lo scherzo e la testimonianza, sospeso tra un tema (la vita di un uomo) e la sua deformazione (in varianti di una realtà sfuggente), Alessandro Trasciatti ci accompagna con garbo e ironia dentro la casa, e il suo mondo possibile, di uno dei più importanti poeti italiani dei nostri anni. (ac)

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[nella foto, Roberto Amato]

 di Alessandro Trasciatti

Questo volume nasce sotto i peggiori auspici. Volevo scrivere un libro che cantasse le lodi del poeta Amato, che ne raccontasse la vita e ne celebrasse l’opera. Ma lui si è opposto. Non credo per modestia, quanto per il timore che non lo celebrassi abbastanza. Però, siccome non ha molti altri disposti a celebrarlo, è tornato sui suoi passi, mi ha detto di sì. Un sì che un pochino continuava ad essere un no. Diciamo che, in mezzo a mille tentennamenti, egli ha messo in atto una strategia di resistenza passiva, di non collaborazione, il suo motto è stato “non approvo ma consento”. La lotta si è fatta via via più difficile con l’avvicinarsi della scadenza di pubblicazione. L’ultima volta che sono andato a trovarlo ho penato non poco per entrare in casa sua. La porta, che pure non era chiusa a chiave, faceva fatica ad aprirsi, sentivo un impaccio, un peso molle e greve che impediva alla porta di girare sui cardini, come un sacco imbottito che fosse appoggiato dal dentro. Non era un sacco, era Amato stesso che, sdraiato in tutta la sua lunghezza come un pesante rotolo di stoffa, cercava di impedirmi l’ingresso. Non parlava, non fiatava, non aveva il coraggio di dirmi “no!”. Per questo l’ho odiato. Stava lì in terra come uno smisurato siluro appena pescato, boccheggiante. Ma nel fondo dell’occhio gli brillava, appena percettibile, una recondita soddisfazione.

Il poeta Amato scrive poesie per tanti motivi, ma essenzialmente perché si sente solo al mondo, nonostante che abbia una moglie e molti figli, anzi, proprio da loro si sente bistrattato. Per cercare di stabilire un principio di autorità maschile in casa sua, ha messo al mondo i figli in questo modo: prima un maschio, poi una femmina, poi un altro maschio e poi un’altra femmina e così via, non so quanti siano in tutto, non sono mai riuscito a contarli. In questo sistema, dice Amato, “ogni maschio può dire di essere fratello maggiore di almeno una femmina”. Ma è, con tutta evidenza, un tentativo patetico fatto da un uomo che non ha mai contato nulla e non riesce a contare nulla, nemmeno adesso. Per esempio, qualche giorno fa gli ho telefonato e ho sentito che in casa sua c’era proprio una rissa: era uno dei figli maschi che batteva una delle femmine e questa rideva, rideva e quell’altro giù colpi. Però davano fastidio e Amato stava lì inerme, ogni tanto si beccava una sberla anche lui e diceva con una vocina lamentosa: “Dai, smettetela, non lo vedete che sono al telefono, sono vostro padre” e loro colpi, urla, risate…

La casa del poeta Amato non è una casa. Io ci sono stato più di una volta e posso garantire che è una specie di corridoio lunghissimo con in fondo la porta del bagno, che è sempre chiusa perché dentro c’è un filosofo suo amico, il filosofo Borso, che lo va a trovare, mangia come un otre e poi si sente male. Così poi le figlie minori di Amato iniziano a strepitare una dopo l’altra perché devono truccarsi e vogliono fare la doccia, e invece nel bagno c’è il filosofo Borso con la diarrea o col vomito. Allora le figlie minori, innervosite, attaccano briga con i fratelli maggiori che però iniziano a batterle per fare rispettare l’ordine maschile della casa che non vige mai, neanche a suon di botte, perché Amato è un cincischione che se le fa fare di tutti i colori. Il filosofo Borso, una volta che tornava con Amato da una gita, si è sentito male perché erano stati da un pastore, gli avevano comprato una forma di formaggio e se l’erano mangiata intera con un fiasco di vino andante. Amato non si è sentito male, ma Borso sì, perché non avevano neanche un tozzo di pane e allora Borso, come pane, aveva raccolto in terra delle croste di formaggio marcio che secondo lui, da filosofo, erano “la cosa più vicina al pane” che ci fosse nei paraggi. Così dopo ha vomitato anche l’anima e per poco moriva, mentre fuori dalla porta del bagno le figlie minori di Amato ridevano e i fratelli maggiori le picchiavano.

La casa di Amato, essendo fatta a corridoio, è piena di porte da cui sbucano di continuo i figli e le figlie di cui sopra e a volte anche la moglie, ma poco perché lei se ne sta sempre rintanata in cucina a preparare il pesce per il maritino che poi, invece, fa lo schizzinoso e gli dice con la sua vocina da schiaffi: “Non ho fame, me lo fai un uovo?”. Io gli direi: “Fattelo te un uovo, ti ho cucinato uno spaghetto allo scoglio, un fritto di paranza, il polpo caldo, un’orata al cartoccio, le patate fritte, le patate arrosto e te mi dici se ti faccio un uovo, vainculo”. Invece no, lei si alza, va in cucina e gli cuoce un uovo alla coque che poi lui spacca col cucchiaino e ci infila dentro il beccuccio. Poi magari, per finire il pasto, mangia un chicco d’uva. Comunque, questo corridoio pieno di porte è poco illuminato perché c’è solo una lampadina fioca verso il fondo, vicino alla porta del bagno. Quando uno entra dal portone d’ingresso e vede questo corridoio tetro, e sente i rumori del filosofo Borso chiuso in bagno, e  le figlie di Amato che starnazzano e i figli che ruttano per darsi importanza, e sente l’odore di pesce fritto che viene dalla cucina, gli viene da andare via, da scappare. Magari Amato è lì sulla porta, che ti guarda con gli occhiali spessi, ti guarda e ti chiede se vuoi entrare e tu gli dici: “No…devo andare via, mi aspettano a pranzo”. E lui: “Ma non dovevi venire qui a pranzo?” E tu a quel punto non sai più che fare, perché sei scoperto, ma non  te la senti di entrare, hai una fame da lupi ma d’infilarti in quella casa non ne hai mica voglia, ti viene invece voglia di piangere e allora farfugli delle frasi incomprensibili e cominci a retrocedere passo passo, ti allontani. Amato si sporge dalla porta, ti dice: “ma dove vai? Vieni che mia moglie ha fatto una spigola al forno!” Ma tu ormai sei lontano, per fortuna, continui a ciancicare frasi di scusa e alla fine dai le spalle ad Amato, scantoni al primo angolo e ti infili in una pizzeria.

II

Amato, quando lo conobbi, aveva vinto da poco il Premio Viareggio per la poesia, era il 2003. Ci davamo ancora del lei. Io non so cosa volevo fare all’epoca, cioè in che progetto volevo coinvolgerlo, forse fare dei libretti d’artista con le sue poesie, qualcosa del genere. Ne avevamo parlato al telefono e lui mi aveva invitato ad andare a trovarlo a Viareggio.

Amato mi attende sulla porta di casa. Esce e chiude dicendomi che possiamo fare con calma, tanto il pranzo non è ancora pronto. Camminiamo zitti per un po’, poi d’improvviso mi fa: “La vuole vedere la chiesa dell’Annunziata? E’ un posto bellissimo”. Così andiamo. Sfoglio la vecchia guida di Viareggio che mi sono portato dietro, quella del Michetti, stampata nel 1893. Leggo ad alta voce: “Questa piccola chiesa… è detta della SS. Annunziata; ma veramente è dedicata a S. Pietro, ed è la più antica della città… venne costruita dal 1550 al 1560”. Amato conferma.

Poi prende a parlare, tesse le lodi di questa chiesa, un luogo veramente surreale, strano, luminoso, a metà strada tra il luogo di culto e… “Lei è religioso?”, mi fa. Rispondo in modo evasivo, dicendo che ho avuto un’educazione cattolica, come quasi tutti del resto. Amato continua a parlare della SS. Annunziata con parole piene di suggestione, ma io lo interrompo leggendogli di nuovo la mia guida: “Nel 1740, aumentando viepiù la popolazione, fu restaurata e ingrandita questa chiesa, che nella sua architettura non può lodarsi, perché le modanature sono sproporzionate e di poco gusto”. Amato conferma. “Insomma – gli faccio – mi sta portando a vedere una chiesa brutta?”

Ma intanto siamo arrivati. Il portone è chiuso. Restiamo a scrutare la facciata col naso all’insù, ritti come stecchi sulla piazzetta, io un po’ interdetto, Amato tranquillissimo. Gli dico: “Ma non lo sapeva che era chiusa?”. E lui: “Sì, sì, me lo immaginavo, è difficile che sia aperta”. Poi gli squilla il cellulare: sua moglie gli chiede dove diavolo siamo finiti, il pranzo è in tavola da un pezzo. Lasciamo la SS. Annunziata (che però è dedicata a S. Pietro) a conservare la sua bellezza segreta. O forse era tutta lì, in quel portone chiuso, e non me ne sono accorto.

Io, Amato, invece di premiarlo lo avrei preso a bastonate.

III

Il poeta Amato, ci sarà un giorno che nessuno saprà più dov’è. Già da un pezzo non vado in quella casa e al telefono lui risponde poco, fa dire che non c’è, oppure risponde di malavoglia, dice qualche frase di circostanza, poi lo senti che vuole riabbassare e infatti riabbassa la cornetta. La scusa più frequente che accampa è che deve lavorare. “Devi scrivere?”, gli chiedo. “No, devo lavorare in negozio”. Ora, questa storia del negozio andrebbe sfatata, perché è vero che fa il commesso nel negozio di scarpe di sua moglie Adelaide, ma nessuno ce lo vede più da mesi. Poi un giorno mi dice che sta costruendo una casa, che stanno traslocando, che vanno a stare sopra il magazzino delle scarpe. Non credo che sia vero, cioè, penso che la verità sia molto peggiore. Cioè che il poeta Amato si stia murando vivo in casa, stia chiudendo con i mattoni le porte e le finestre, e allora il resto della famiglia se ne è andata ad abitare da un’altra parte, forse davvero in un appartamento sopra il magazzino delle scarpe. E’ un tema ricorrente nella poesia di Amato la casa costruita addosso, su misura, la casa che lo protegge e lo soffoca, la casa-loculo. Ecco, credo che alla fine le fantasie abbiano preso il sopravvento, si siano concretizzate, fatte gesto e calce e mattoni. Non so se abbia viveri per campare a lungo in casa, non credo. Ma è anche vero che consuma poco, giusto un ovetto e un chicco d’uva al giorno, quindi è probabile che si estinguerà piano piano. Sarà una morte lenta la sua, dovrebbe esserci tutto il tempo per fargli visita, perlomeno da fuori, parlarci dallo spioncino del portone, da una fessura di una finestra non completamente sigillata. Mi dispiace non vederlo più. Mi manca davvero molto, inutile negarlo.

L’ultima volta che l’ho visto mi fece visitare il famigerato magazzino delle scarpe, dove Adelaide sola sa orientarsi, riunire due ciabattine estive spaiate, ritrovare un modello di decolleté che non si vende quasi più, ma forse una o due clienti lo possono ancora apprezzare. Il magazzino è un mondo subacqueo, calarcisi dentro è un’immersione in stretti corridoi dalle pareti altissime di scaffali stracolmi di scatole, rigurgitanti scarpe di ogni foggia, per ogni età. Avanzare nei corridoi è come sguazzare nella stiva di una nave in avaria, piena inesorabilmente d’acqua, sull’orlo dell’inabissamento definitivo. E se qualcosa dall’alto crollasse, se un valanga di scarpe e scatole di cartone ti rovinasse addosso, ci vorrebbero ore per ritrovarti, forse giorni. E’ sempre bene avvisare qualche autorità o qualche servizio pubblico quando qualcuno si accinge ad entrare nel  magazzino, dirlo che stiamo andando là, così, se prima di sera non sei tornato, scatteranno le ricerche. Io l’ho visto Amato che si aggirava fra  quei corridoi odorosi di cuoio e di mastice, me lo ricordo laggiù nella penombra che mi faceva strada, sottile come una statuetta etrusca, spariva e riappariva in lontananza. Pensavo a troppe cose in quei momenti: Amato come Geppetto nel ventre della balena, o come Giona; Amato negli abissi di Giulio Verne; Amato che sembra nascondere un segreto, ma forse è solo un abilissimo mistificatore.