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di Alessandro Montagner

La notizia è delle più inattese. Al termine dei festeggiamenti che dovutamente avevano trasferito alla storica osteria trevigiana Muscoli’s la Festa del cinema ormai conclusa, un’occhiata alle locandine appese ha riservato uno scoop da copertina: gli Shellac in concerto a Treviso! O meglio in provincia, al New Age Club di Roncade. Il trio  di Chicago (Steve Albini, Bob Weston, Todd Trainer) è un nome imprescindibile nell’indie rock, ma è famoso per i suoi concerti rari e in luoghi selezionati – quelli a Reykjavík sono diventati un cliché: che ci fanno dunque da queste parti? E le buone nuove non sono esaurite: un rapido aggiornamento in rete m’informa che, a sei anni di distanza dal precedente Excellent Italian Greyhound, il trio sta masterizzando un nuovo album; e che Steve Albini ha un debole per la polenta. In una parola, un’occasione imperdibile.

Oltretutto sembra che con il passare degli anni i concerti si siano fatti meno sporadici: l’attuale tour europeo prevede undici date in due settimane. Nelle prime l’opening act sono le Amavo, duo femminile di Venezia il cui ultimo disco Gracefool è stato masterizzato nel 2012 da Bob Weston. E forse è questa la chiusura del cerchio: gli Shellac portano le Amavo in tour, le Amavo portano gli Shellac in Veneto. Everybody wins. Specialmente noi.

Dal vivo le ragazze dimostrano subito di meritare l’attenzione guadagnata anche all’estero. Mai accomodanti nel corso dell’intero set, sgranano una sequenza di brani eredi dell’art rock più spigoloso e intelligente con nonchalance consumata: i riff angolari si sovrappongono in loops dall’incastro sorprendente, in grooves disarticolati eppure saldi; mentre i pattern ritmici diseguali sono condotti con grande precisione, e con un balletto sui pedali della batteria dalla grazia tutta femminile. Che il vostro avvenire sia radioso e sghembo, ladies.

Durante il cambio palco, mentre suona Les Revenants dei Mogwai, più di qualcuno tra il pubblico scambia osservazioni sulle dimensioni di amplificatori e testate. Le aspettative sono palpabili; gli Shellac sono una garanzia di autenticità da vent’anni. Non hanno cambiato barbiere, e sul palco si montano ancora la strumentazione, disponendo la batteria non in posizione arretrata ma frontale, di modo che i tre siano fianco a fianco. Albini indossa la tuta da lavoro dei suoi studi di registrazione Electrical Audio. Si può non amarli?

L’apertura mostra subito i muscoli e brucia My Black Ass e Copper. Il sound è quello che hanno brevettato, e che forse non colpisce più con la stessa forza solamente perché ha fatto scuola: asciuttissimo, crudo, sgraziato, stridente, scomodo. Dal vivo scuote ancora di più, e con pochissime sbavature. Sul palco, inoltre, i tre danno spettacolo. Bob Weston alterna posizioni assertive a gambe divaricate a spostamenti strategici; pochi passi, poche note. Todd Trainer è il più dinoccolato, eppure pesta come su disco, dimostrando che non è la dimensione del drum set a fare la differenza; gronda sudore per buona parte del concerto, e a più riprese è lui ad avere un ruolo solista, quando gli strumenti a corde perseverano matematicamente sullo stesso riff. Ha un piatto posizionato ad un’altezza degna dei Battles. Steve Albini si lega ancora la chitarra alla vita e a volte gesticola come fosse posseduto; e a giudicare dai testi nervosi che snocciola, non c’è di che stupirsi. Per la verità, nonostante la fama polemica, i tre Shellac si dimostrano molto affabili. Non mancano sketch come le reiterate false partenze, o lo stop & go volutamente slabbrato con cui A Minute diventa la Squirrel Song.

La scaletta pesca dall’intero repertorio, con meno frequenza da Terraform che infatti è tra i loro dischi più deboli. Uno dei momenti topici è offerto da Wingtalker, da uno degli EP’s d’esordio, il cui ritornello “I’m a plane!” dà adito alla tipica provocazione albiniana: abbiamo perso il senso della meraviglia per il volo, e cerchiamo di evocarlo togliendoci le scarpe ai check-in…  Per quanto è dato sapere, i pezzi inediti faranno parte del nuovo album, la cui registrazione si è conclusa due settimane fa e la cui pubblicazione dovrebbe quindi arrivare più avanti nel corso dell’anno, come ci assicura Bob in una delle tradizionali sessioni di Q&A con il pubblico (“Questions? Any questions for me?”). A Steve viene chiesto cosa pensa del nuovo disco dei My Bloody Valentine, occasione perfetta per una delle sue tirate; ma la risposta è un semplice “Sarò sincero, non l’ho ascoltato”, a cui segue un “Ma sono assolutamente certo che sia strepitoso” perfettamente tongue in cheek. “A me piace”, chiosa Bob. La chiusura con Prayer to God e Crow lascia terra bruciata.

Dopo il concerto, mentre i tre si offrono a domande e foto e i ragazzi del pubblico si fanno firmare poster, biglietti del concerto e i vinili da 180 grammi che sono uno dei marchi di fabbrica della band, ripenso alla storia degli Shellac. I primi EP’s e soprattutto l’album d’esordio At Action Park segnarono indelebilmente il post rock e il math rock (etichette che il gruppo disapprova) con il suono abrasivo e le strutture decostruite dei loro pezzi. Forse solo i Fugazi godevano della credibilità che Albini e soci si erano guadagnati sulla scena indie, e tutti li hanno ascoltati con attenzione. Ma gli Shellac non sono mai stati un lavoro a tempo pieno; e se i primi tre dischi erano arrivati nel giro di sei anni, ne sono stati necessari altri sei per il seguente, e altrettanti, pare, per quello in uscita. I gruppi in cui i tre avevano militato in precedenza erano stati autentiche meteore, per buona parte: Big Black, Rapeman, Volcano Suns, Breaking Circus… eppure queste due modalità sono facce della stessa medaglia, della medesima coerenza. È spiazzante pensare agli Shellac come una band con cui invecchiare; ma di certo hanno dimostrato come si invecchia.