di Luca Ghirimoldi

No beast so fierce but knows some touch of pity.
But I know none, and therefore am no beast.
(W. Shakespeare, Riccardo III)

Da sempre, l’escatologia ha funzionato assai bene al cinema, per una serie di motivi abbastanza facilmente comprensibili: l’ansia per un rivelazione finale e collettiva, il fascino seducente una situazione tendenzialmente al di fuori dell’ordinario e l’immedesimazione in un alter-ego tipicamente border-line, la possibilità di simbolizzare, attraverso la serie di insuperabili ostacoli che separano l’eroe dalla salvezza, un percorso di riscatto e redenzione alquanto accattivante per i più. E si capisce anche perché spesso sono state le pareti e le sbarre delle carceri di massima sicurezza ad ospitare queste spietate lotte per la vita e per la verità: in un contesto estremo, i conflitti esplodono con maggior vigore e rabbia.

Se non proprio identiche, molto simili devono essere state le riflessioni di Andrej Končalovskij, quando nel 1985 decise di mettere davanti alla macchina da presa un soggetto originale del maestro Akira Kurosawa, per cavarne Runaway train (in Italia, con una localizzazione che potrebbe trarre un po’ in inganno, A 30 secondi dalla fine). Končalovskij, regista di scuola e di razza al tempo stesso, decide tuttavia per uno scarto decisivo, che allontana da subito i sospetti di un action movie nudo e crudo: il film si carica infatti di una serie di echi e risonanze che accrescono la spessore di una pellicola altrimenti vittima dei meccanismi più semplici del genere “guardie e ladri”.

Già la scelta dei due protagonisti è chiara e lampante: Oscar Manheim, personaggio autenticamente bigger than life, ha appena concluso un lunghissimo periodo di isolamento per due tentativi di fuga andati a vuoto; e subito progetta l’ultima definitiva evasione, quella che lo restituirà libero alla vita. Duro, cattivo, spietato, interpretato magistralmente da Jon Voight, Manny (così si farebbe chiamare dagli amici) è l’antitesi radicale del ladro ‘buono’, del criminale che, pur violando le norme della società, combatte a suo modo per un ideale, rispettando le norme di un cavalierato opposto a quello comune, ma pur sempre basato su uno specifico codice d’onore. Manny è piuttosto divorato da un’insaziabile e famelico istinto di affermare il proprio obbligo alla libertà, sia contro le regole coattive del carcere, sia soprattutto contro Ranken (John p. Ryan), il sadico direttore della struttura di Stonehaven (Alaska), che non è mai riuscito a piegarne la volontà ferina. Ad affiancare Oscar, come nella maggior parte dei film del genere, c’è Buck (Eric Roberts: un attore che avrebbe meritato miglior sorte che quella del caratterista e anche lui come Voight candidato agli Academy Award del 1986), addetto alla lavanderia e recluso per rapporti sessuali con una minorenne. Eppure, tra i due non nasce quella solidarietà fraterna o genitoriale che solitamente le circostanze estreme della vita cementificano, e da cui il filone di genere di Runaway train ha sempre attinto a mani basse. Debole ed immaturo, Buck, mediocre pugile del carcere, identifica nella mitica figura di Manny un punto di riferimento, ma al tempo stesso viene colpito dalla rabbia feroce, dalla determinazione totale della sua guida; Manny, dal canto suo, farebbe a meno di qualsiasi amico, e non esita a farlo capire al giovane compagno con un punteruolo.

Ma il contenuto spiccatamente ‘tragico’ che Končalovskij infonde nella trama d’azione attende i due fuori dalle sbarre, con sublime inganno: l’ultimatum della vita avrà luogo su un locomotore apparentemente deserto sul quale gli evasi, credendosi salvi, si rifugiano per scappare verso la libertà. Il macchinista, colto da infarto, fa invece partire il convoglio a tutta velocità, senza che nessuno possa fare nulla, nemmeno la giovane Sara (Rebecca De Mornay), anch’essa ospite involontaria del convoglio. Mentre le autorità ferroviarie dimostrano la loro stolida inefficienza, e Ranken si getta furioso a caccia del suo nemico numero uno, il treno impazzito diviene palcoscenico dell’animo umano.

Da una reclusione all’altra, da una condanna a vita ad una condanna a morte: Končalovskij, con luce dostoevskijanemente tragica, illumina per squarci le psicologie dei tre passeggeri, che cercano disperatamente di raggiungere la sala comandi per arrestare la loro corsa mortale. La sfida di Manny, Buck e Sara non è tanto, allora, contro il clima polare o la perversa struttura blindata del locomotore – che ricorda quasi un incubo kafkiano, nella sua insensata follia – quanto, fianco a fianco, contro quelle pulsioni primigenie che il regista analizza con raffinata concisione (del resto i tempi contano, quando sei su un treno fuori controllo). Odio e vendetta, lealtà ed orgoglio, istinto di conservazione e desiderio di libertà; in accordo con la catarsi tragica, ogni violazione della legge impone un sacrificio estremo e totale.

Manny, sconfitta pure la nemesi di Ranken, rimarrà solo; come un re shakespeariano sulla locomotiva del destino, là davanti c’è solo lui alla fine della sua fuga redentrice: superbo.

A 30 secondi dalla fine (USA/Israele, 1985), 111 min. di Andrej Končalovskij, con Jon Voight, Eric Roberts, Rebecca De Mornay, John P. Ryan.